Gli imperi odierni e i loro Stati vassalli, come li osserviamo disegnati, grazie ai processi storici e
agli avvenimenti accaduti, nella loro configurazione geografica sul mappamondo delle aule scolastiche, guardano a quello di Roma come archetipo mitico, di dominio sulle terre conosciute, i cieli e gli oceani. Non perché, ad esempio, la finanza che impera a Wall Street, protetta da cannoniere e jet da caccia, abbia bisogno di una simile riferimento leggendario per imporre la sua strategia globale. Ma perché il richiamo ancestrale, la memoria che si fa Mito, irradiato urbi et orbi, in modo sapiente ed incessante, risulta essenziale nella comunicazione tra Potere e Popolo, che deve subirne il fascino, per condividere i destini della Nazione. Possibilmente senza rompere le scatole nella previsione di versare fiumi di sangue per tale sogno di grandezza a imperitura memoria. E senza lamentazioni e geremiadi, dovendo patire condizioni economicamente disagiate per accarezzare un sogno di prepotente sovranità geopolitica.
Il mito fondante è un’arma strategica, una chimerica minaccia anche per il “nemico”, che lo subisce terrorizzato e che ne risulta disorientato.
Purtuttavia facciamo fatica ad equiparare l’apoteosi storica di Roma con un Impero economicista e mercantilista come quello americano (e persino come quello russo benché, a Mosca, ancora si crogiolino nel mito della terza Roma). Ma non basta mettere un’aquila che rappresenti una potestas imperiale sugli stemmi nazionali -o un’aquila bicipite, nel ricordo del sigillum costantiniano, nelle insegne comunali di tante città europee- per pretendere di assurgere a un ruolo che, oggi, risulta per noi inaccettabile venga così sbandierato e rivendicato.
Anche se, in quelle che ci appaiono come le Nazioni guida, sembra che i coriféi sognino di ripetere le gesta dei quiriti e dei pretoriani, dei centurioni e dei senatori; non solo, anche gli stati nazionali indipendenti o le Nazioni vassalle, più o meno apertamente legate, per alleanze mercantili o militari, alla Nazione guida, poggiano la propria Auctoritas sul mito, comunque esso venga declinato, ed egualmente significante.
La stessa Cina, il Giappone, la Germania, la Francia, la Spagna. Persino l’Iran e l’India, e le repubbliche sudamericane bolivariane. Popoli che hanno visto ridisegnare i confini del proprio territorio, quasi senza soluzione di continuità, in base a trattati, armistizi, guerre ed alleanze, vittorie o sconfitte, subiscono il fascino della narrazione mitica, persa qualche volta nella notte dei tempi e rinnovata ad ogni piè sospinto, per qualsiasi ragione, anche la più banale, basta che rinnovi il “sentimento comune di appartenenza”. Salvo poi, specialmente i popoli economicisti, dell’Occidente raffinato e ricco, rinnovare la storiella demagogica del “siamo figli della Terra”, “tutti egualmente fratelli”, “i confini non esistono”.
E poi giù, da noi per esempio, a cantare a squarciagola l’inno con festoni tricolorati sia per un campionato di calcio vinto che per una tristissima epidemia virale. Quasi a confermare che la narrazione mitica possa bastare, da sola ed inconsapevolmente, a far velo alle presunte dichiarazioni di amore universale e di pace cosmica.
Il mito è la pietra d’angolo sulla quale poggiano le rivendicazioni passate e presenti degli Imperi, quella sulla quale si inginocchiano i popoli clientes e quelli, semplicemente, sconfitti.
Persino l’Italietta, che sarà quella del Carso, volle predirsi un radioso futuro, nel 1914. Peccato che fu per la corruzione del Re e della sua corte, per i denari inglesi finiti nelle tasche dei neutralisti, soprattutto in quelle di Mussolini- per convincerli “con le buone” ad appoggiare l’entrata del paese in guerra- per la mene della FIAT, dell’Ansaldo e della Breda che, sommersa la prima dai debiti, ingolosite le seconde, avevano l’assoluta necessità di far profitto con la produzione bellica, che il Paese fu scaraventato nel carnaio delle trincee di una guerra inutile e sanguinosa. Mentre gli imperi centrali ci avevano promesso acquisizioni territoriali anche maggiori di quelle (non) ottenute con quei 600.000 morti, appena dopo la presunta vittoria. Eppure inni e fanfare, e il tricolore a sventolare dai balconi, avevano illuso i fantaccini di poter essere finalmente considerati cittadini a tutti gli effetti. Perché si dice che un popolo combatta bene quando ha la pancia piena e quando si sente Comunità. E davvero non sappiamo come abbiano fatto a scrivere pagine di coraggio ed abnegazione, ad onta di generali indegni, i pescatori calabresi e i contadini veneti e gli operai lombardi (per citare solo tre gruppi di poveri cristi tra tutti i miserabili mandati a morire) che avevano subito, per dire, fino a quel momento, dal disgraziatissimo 1861, la leva obbligatoria, l’aumento esponenziale delle tasse, la morte miserabile nell’avventura imperiale crispina in Etiopia ed Eritrea, le fucilate di Bava Beccaris, con il sangue dei lavoratori che scorreva nelle strade e le esecuzioni dei contadini siciliani del sindacato dei Fasci socialisti, eseguite a turno dalle truppe regolari e dalle “riserve” cammellate mafiose in Sicilia.
Ma poi, ecco il milite ignoto, la Vittoria, inni e fanfare. Il mito, appunto. E 600.000 caduti, un milione di feriti, il paese stremato, le promesse dell’anteguerra ignorate dagli alleati.
Significa che il mito per il popolo resta una iattura. E, più ancora che per le dittature, il Mito, nell’Occidente ricco e mercantilista, si presenta come un viatico per l’eternità, un millenarismo da Terzo Reich espresso talvolta persino in modo più violento e sicuramente più subdolo.
Per la Cina e la Russia, l’istinto millenarista affonda le radici in un passato lontanissimo che gli americani non possono vantare, se non millantandolo. E, senza radici mitiche, il mito lo devi costruire giorno dopo giorno. Lo devi saldare alle esperienze storiche dei popoli vassalli, lo devi incuneare tra le pieghe delle narrazioni epiche delle civiltà mediterranee o dei racconti sciamanici, lo devi rinnovare con film, serial televisivi, fumetti e cartoni animati. Basta che il tuo popolo bue ci creda e che i popoli vassalli lo accettino. E come vuoi che lo rifiutino, il mito posticcio dell’Aquila Calva, i vecchi e viziosi europei, quelli ricostruiti a immagine delle consuetudini d’oltreatlantico, pezzo dopo pezzo, rinnovati ai nuovi piaceri della vita, rianimati dall’angoscia che li aveva precipitati nel sonno della ragione, quando versavano lacrime e sangue, quegli uomini che, oggi, plaudono alla falsa pace a stelle e strisce? Gente che ha dimenticato il rombo del cannone che tuonava, quando usciva a lavorare sotto le bombe, ha dimenticato il viaggio negli abissi delle miniere, uomini neri come il carbone, senza ossigeno, giù nelle viscere della terra, con un coraggio senza pari, gente, oggidì, adusa a vivere e sopravvivere mentre guarda il termometro pregando non salga oltre i 37 gradi e che, quando sbadiglia, ha paura che le manchi il respiro?
Intanto nessuno può rivendicare a sé, come μῦθος fondante, quello di Roma imperiale. La storia di Roma appare come la continuazione di una serie di leggende mitiche e fatti accaduti che hanno veduto sorgere e crollare potestà e dominazioni. Dall’impero sumero, a quello hittita, a quello dei Medi e poi dei Persiani, a quello egizio, a quello, più limitato geograficamente, ma di forte configurazione etnica e culturale, delle πόλεις greche. Parimenti miti e storia si intrecciano nell’affermazione imperiale delle dinastie dei Qin e degli Han, i Regni del Centro, nell’impero Celeste. E circonfuse di leggenda sono le saghe che rimandano a Gengis Khan e Tamerlano e Solimano. Ed è o no il figlio della dea Amaterasu, l’imperatore del Sol Levante? E condusse o no, i suoi uomini, attraverso la Mesopotamia, fino alla Battriana, Alessandro Magno, nella sua epopea avvolta per sempre nella gloria?
Vi sembrano questi racconti, queste svolte nella storia, la caduta degli dei e l’affermazione di nuove signorie, simili al nuovo proclamato millenarismo dell’economia e della finanza?
Purtroppo non possiamo (ancora?) leggere il crollo di Roma imperiale, che trascinò la sua missione millenaria e il suo dover essere comunque un impero, almeno nominalmente, dal V (476 DC) fino al XV secolo (1453 DC) attraverso le vicende bizantine- prima dell’invasione ottomana, che costituisce, su quelle rovine, un nuovo Impero- come fosse l’ineluttabile destino della signoria globale di Wall Street e della Nazione scelta dai padroni dell’oro come scranno per reggere le sorti del mondo.
Quando ciò avverrà (se ciò dovesse avvenire) i cittadini di quella Nazione, e i vassalli, i cittadini europei, potrebbero perdere la fiducia nella predestinazione, nell’ineluttabilità del dominio del proprio stile di vita, nell’azione civilizzatrice condotta invadendo e imponendo, nell’eccezionalismo, come amano qualificare la loro avventura umana, la propria missione storica, e ancor oggi, gli statunitensi e i loro alleati, gli obbedienti civil servants europei, allineati e protetti, e professionalmente impeccabili maggiordomi del potere imperiale. E allora si vedrà se continuerà, l’uomo occidentale, a credere di essere un predestinato e un privilegiato, il nuovo “cives romanus sum”.
Roma, per adesso, è un ricordo mitico che appartiene soltanto alla storia e alla leggenda. Non agli imperi attuali, non all’Impero Globale dell’Aquila Calva e dei mercati inquinati dalla speculazione finanziaria, dalla protervia dello scommettitore di Borsa, dalla cupidigia di denaro, espressa attraverso il controllo degli amministratori pubblici fino alle turpi alleanze criminali, da parte delle multinazionali globali. Ma è comunque pericoloso che qualcuno ci creda, di svolgere un’opera leggendaria e civilizzatrice, soprattutto negli Stati Uniti, poveri come sono, essi, di Storia classica, di letteratura mitica, di un archetipo nobile che possa essere ricordato con un linguaggio che sia il codice proprio, simbolico e significante, del proprio memorabile divenire sociale, della propria avventura umana come Comunità. E’rischioso ci creda la compagine sociale, i ceti popolari e l’upper class. La voglia di farsi giustizia da sé, l’esagerato amore per le armi dei cittadini statunitensi (pare le abbiano comprate pure per sconfiggere il COVID-19) affondano le radici nel mito dell’invincibilità, nel dovere di portare il modello americano nel mondo, di costringere alleati e nemici ad uniformarsi. La violenza come epos, la guerra senza soluzione di continuità come ineluttabile destino. Con i popoli vassalli che forniscono uomini e mezzi per sostenerla.
E cos’è questa creatura, denominata UE, la raffazzonata compagine legata alla potenza egemone? Non viene definita da gloriose epopee di pensiero, da sanguinose avventure di guerra, dagli incommensurabili tratti del genio continentale, dal cammino lungo i millenni delle Comunità Territoriali che hanno plasmato l’Europa delle genti, ricche di storia, no. Piuttosto viene evocata con una sigla, UE, quindi anch’essa ridotta a patria comune senza Storia, senza ricordi fondanti, umiliata a modello economicista, come fosse un androide senza madre né padre, con le radici secche e rattrappite nel sonno della memoria. Ricordo quando se ne discuteva, delle radici dell’Europa e a quelle non vollero uniformarsi, per volere della Finanza e delle banche d’affari che sorreggono l’impero americano, i capetti e i kapò delle rappresentanze senza potere dei popoli d’Europa. Anche la creatura deve dismettere ricordi e memoria ed uniformarsi ai ricordi (di guerre predatorie) e all’ essenza del Creatore, della Nazione Monade. Che, sola, ha il diritto di ascrivere la propria forza persuasiva al compito storico imposto dal destino, il dover esportare la Civiltà, il cosiddetto, farisaico, “dovere di proteggere”. Utilizzando la gioventù americana e gli uomini forti e adolescenti delle nazioni clientes come carne da macello nella strategia di conquista e controllo universale, militari perennemente in marcia.
La mitologia del “Popolo eletto”, insomma, che non può essere definito come mera compagine sociale. Nell’impero angloamericano questa convinzione è strettamente correlata alle visioni mistiche del protestantesimo battista e calvinista. Nella cosiddetta UE, non trova nessun tratto fondante, solo le demagogiche, frustranti litanie dell’oggi : “dobbiamo dare una mano a chi si trova in difficoltà, ma alle nostre condizioni”, “dobbiamo sostenere l’euro”, “dobbiamo produrre evitando di fare debito, secondo i limiti imposti dai trattati”. Dichiarazioni di principio che, per carità, non contesto nell’assunto, pur essendo l’economia solo uno dei tratti della Comunità, uno solo, benchè assurto a paradigma di cittadinanza, ma che penso cancellino qualsiasi voglia di scavare, con profondità di pensiero e forza d’animo, alla ricerca del senso ultimo, gratificante e nobile, della vita di ognuno e dell’epopea, che è mitica narrazione poetica, che riconosce ogni popolo in guisa di una Comunità. Le parole d’ordine del mondo occidentale (questo nuovo irriconoscibile Occidente) schiavo degli interessi e dei consumi, costringono l’homo novus a contare gli spiccioli in tasca, guardando ai suoi piedi, se ha le scarpe buone o bucate, senza mai sollevare prometeicamente lo sguardo al cielo. Un uomo nuovo vecchio (mai ossimoro fu più azzeccato) frustrato e stanco.
Una sigla, non una alleanza di nazioni forti ed eternamente giovani, la UE, una sigla che si esprime con un linguaggio e una linea di pensiero mediaticamente imposti. E, ai nuovi dissidenti, viene affibbiato il ruolo dell’eretico. Chi non si uniforma al tratto demagogico, alle parole d’ordine, viene sopportato, snobbato, deriso, infamato, lasciato ai margini. Perché i popoli senza storia devono immaginare un solo presente, senza passato e dal futuro incerto, un futuro di sottomissione, di frustrazione, di gioie senza gioia, di libertà senza libertà, di immaginazione senza immaginazione. E, se vai fuori tema, sei un eretico. Non finisci sul rogo, ma alla gogna dei disprezzati, dei confinati sui social, degli alienati dalle compagini sindacali e di partito, messo ai margini da chi vuole partecipare, con malcelata lussuria, alla grande rappresentazione del burattinaio e dei suoi assistenti.
Eppure il popolo, quando vuole, sa essere Comunità ben oltre la volontà di potere dei suoi amministratori pubblici e dei rappresentanti del Parlamento. Sa concepire il bene sociale come ricchezza pubblica e benessere condiviso, oltre ogni volontà egemonica di potenza. Per un tranquillo presente di giustizia e verità.
Ecco perché è necessario che le antiche, gloriose Comunità Territoriali d’Europa, ritrovino uno scatto d’orgoglio, rinnovino la propria missione storica, proponendo l’autodeterminazione dei Popoli, stavolta stetti in una santa alleanza, di destini e di speranze, fuori dalle catene degli antichi Stati nazionali che hanno abdicato alla loro stessa ragion d’essere. Certo, Comunità per adesso definite nei confini di quegli stati, mausolei di sé stessi, ma poi con amministrazioni che possano riflettere le necessità di ognuna in un’ottica di condivisione e di aiuto reciproco. Perché solo nel ricordo delle gesta degli eroi, dei filosofi, degli uomini di scienza, degli artisti, degli stessi religiosi votati alla povertà e alla carità, può avere senso immaginare un destino comune. Creando un’Europa dei Popoli, viva, vitale, pacifica, storica, e abbattendo questo feticcio senza sapore che chiamano UE e che non significa nulla. Un primo passo verso un futuro diverso, in mano alle giovani generazioni o, almeno, alle generazioni sopravvissute al Corona virus.
Se non ora, quando?
MAURIZIO CASTAGNA
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